Festa della Repubblica
Stamane mentre guardavo in TV la parata che si svolge a Roma in occasione di questa Festa pensavo a quante persone si sono sacrificate perché il nostro Paese potesse diventare una Repubblica, a quante famiglie sono state duramente provate prima di poter vivere in una realtà che avrebbe garantito i diritti civili, sociali, politici, religiosi…
La deposizione della corona di alloro al Milite Ignoto sull’Altare della Patria ha suscitato in me un desiderio di ringraziamento nei confronti di tutti quelli che hanno combattuto, senza i quali non godremmo di quella libertà che ci consente di poter essere “noi stessi”.
Tante persone, inoltre, pur non essendo direttamente coinvolte in guerra ne hanno subito personalmente le conseguenze, hanno dovuto affrontare sofferenze e disagi che hanno profondamente segnato la loro vita.
Maria Gregna, moglie del mio collega Peppe, ha scritto un articolo su suo padre, pubblicato nella rivista trimestrale “Pace e solidarietà” – Assoc. Nazionale Vittime civili di guerra.
Riporto il suo racconto esprimendo il desiderio o forse la preghiera di un sognatore: Signore fa che possano cessare tutti i conflitti, che il mondo viva in PACE!!! Ornella
Mio padre, grande invalido civile di guerra.
La serena atmosfera che regnava a casa ha fatto sì che su nessuno di noi figli avesse peso la condizione fisica di nostro padre.
Mio padre, all’età di soli 19 anni, ha subito l’amputazione delle mani a causa dell’esplosione di un ordigno lasciato inesploso sul terreno e io, sin da bambina, ho vissuto la sua mutilazione come se fosse una condizione “normale”.
Da piccola non capivo, non mi rendevo conto; crescendo ho cominciato a fare domande, come fanno tutti i bambini e, ogni volta, ho avuto la risposta adeguata: mai un velo di pietismo, mai sconforto negli occhi di mio padre.
Non ha mai chiesto di essere compatito per il suo stato di invalidità; ha sempre rifiutato il nostro aiuto quando, timidamente, cercavamo di avvicinarci perché pensavamo potesse avere qualche difficoltà. Diceva: “Togliti,… faccio da solo!”. Voleva dimostrarci che poteva farcela … e ci riusciva.
Mi ha insegnato ad andare in bicicletta; ha seguito i miei primi passi a scuola stando seduto accanto a me per incoraggiarmi quando non sapevo tenere la penna in mano; mi faceva ridere quando al mare voleva insegnarmi la tecnica per nuotare e cercare di nuotare a sua volta, con scarsi risultati…
Quando adolescente frequentavo la scuola media, mi capitava spesso di invitare alcune compagne di classe a venire a casa per studiare insieme e solo allora mi preoccupavo di informarle che mio padre “non aveva le mani”, non perché per me ciò fosse un problema, ma solo per evitare che, non sapendo, loro potessero sentirsi in imbarazzo.
Mio padre per salutare stendeva il braccio come fanno tutte le persone, loro non avrebbero avuto una mano da stringere, ma un “moncherino” del braccio, la mano non c’era.
Mio padre è stato un esempio di vita, non si è mai tirato indietro davanti a niente; ha fatto in modo che la sua invalidità non avesse il sopravvento sul suo carattere deciso e forte, anzi, forse la mutilazione lo ha reso ancora più caparbio.
Bisognava vederlo fino a qualche anno fa quando si accendeva una sigaretta o rispondeva al telefono!
Ma la cosa che più colpiva i miei amici era il racconto di quando mio padre preparava il caffè a mia mamma. Sì, ogni mattina preparava la moka da solo: riempiva la caldaia di acqua, metteva il piccolo imbuto, lo riempiva di caffè con il cucchiaino e avvitava il bricco. Quando il caffè era pronto lo versava in una tazzina, metteva lo zucchero e portava il caffè a mia mamma che si era ormai abituata a questo tipo di risveglio. Tutto senza l’uso delle protesi, come se avesse le mani. Eppure quelle operazioni presuppongono abilità di motricità fine.
Dopo la mutilazione non ha più potuto lavorare, da allora ha percepito la pensione per invalidi civili di guerra, ma ha cercato di tenersi sempre impegnato.
Quando ancora abitava nel suo paese di origine, Niscemi, era dirigente di una squadra di calcio, che seguiva anche nelle trasferte; a Ragusa è stato un socio attivo dell’Associazione Grandi Invalidi Civili di Guerra rivestendo il ruolo di contabile per diversi anni.
Ha cercato di andare sempre oltre il suo handicap, perché ha sempre pensato che anche se si è disabili si può vivere una vita normale.
La mutilazione rientra tra le avversità della vita, e nella vita alle avversità non bisogna arrendersi.
Ci ha sempre raccontato come si viveva durante il periodo della guerra, di quando andava nei campi dei tedeschi per portare vino o sigarette, di quando sono arrivati gli americani e di come erano stati accolti, ma non ci ha mai raccontato cosa ha provato quando, ad appena 19 anni, ha dovuto reimpostare la sua vita; non ci ha mai detto con quale animo ha reagito, quali sono state le sensazioni e le emozioni di quel momento terribile.
Ha taciuto forse perché non voleva cadere nella trappola del pietismo, forse perché si era imposto che non sarebbe più tornato con la mente al giorno della sua disgrazia o magari perché pensava che il suo racconto avrebbe potuto avere dei risvolti e delle ripercussioni sulla nostra formazione e sulla nostra crescita.
Ci ha voluto forti, decisi, determinati.
L’unico segno che nel tempo ci ha dimostrato che il suo vissuto non è mai stato cancellato era la sua esagerata reazione alla visione di qualche goccia di sangue che potesse fuoruscire da uno delle sue braccia a seguito di un piccolo taglio: si allarmava, chiedeva subito un emostatico o un cerotto.
Il dramma, anche se lontano nel tempo, riaffiorava …
Già, ma come si può pensare di dimenticare che la propria vita è cambiata per una scelta che gli altri hanno fatto: l’Italia era entrata in guerra pensando di salire “sul carro dei vincitori”, magari con poche migliaia di morti, ma nessuno ha pensato a quanti, nella loro vita, ne avrebbero portato i segni, nel corpo e nell’animo, per sempre.